Relazione preparata dall’avvocato Celeste Lombardi in collaborazione con la dott.ssa Letizia Martini per il Congresso del MAMI – marzo 2000
Normativa di riferimento:
2. Il Regio Decreto legge 22 marzo 1934 n. 654
3. L’art. 37 della Costituzione
4. Un primo intervento organico a tutela della maternità: la legge 860/1950
5.La normativa attualmente vigente: legge 1204/1971
6. L’attuazione di alcune direttive CE in materia di tutela delle lavoratrici madri che allattano
7. Alcuni esempi di tutela delle lavoratrici madri che allattano nella contrattazione collettiva
Premessa
Per quanto abbia ad oggetto la legislazione italiana a protezione delle lavoratrici madri che allattano, si premette fin d’ora che la presente esposizione non potrà prescindere dalle tappe fondamentali di evoluzione della disciplina nazionale a tutela delle donne lavoratrici indipendentemente dalla loro condizione di madri.
1. La “tutela” del lavoro femminile agli inizi del secolo: nel 1902 la prima previsione del congedo di maternità (legge 19.6.1902 c.d. legge Carcano)
Fino ai primi del Novecento in Italia il lavoro femminile, per quanto ormai costituisse una realtà in espansione, non era disciplinato da alcuna legge.
Il dibattito parlamentare per il varo di una legge che contenesse delle norme che garantissero la salute e l’incolumità delle donne lavoratrici, iniziato già alla fine dell’Ottocento, non riusciva a convogliare gli opposti interessi verso l’approvazione di un testo di legge.
Solo nel giugno del 1902 veniva approvata la legge n. 242 c.d. legge Carcano (dal nome del ministro presentatore del disegno di legge) che dettava norme, seppur minime nei contenuti, a tutela delle donne lavoratrici.
La legge 242/1902 vietava alle donne di qualsiasi età i lavori sotterranei ; limitava a dodici ore l’orario massimo giornaliero prevedendo un riposo di due ore ; vietava, ma solo alle donne minorenni, il lavoro notturno .
La tutela che la legge garantiva alle lavoratrici madri si sostanziava nella introduzione del divieto di adibire le puerpere al lavoro “se non dopo trascorso un mese da quello del parto” . In via eccezionale esse potevano riprendere il lavoro anche prima di suddetto termine “ma in ogni caso dopo tre settimane almeno” e sempre che un certificato dell’ufficio sanitario del Comune attestasse che le condizioni di salute della donna era tale da permetterle di compiere, senza pregiudizio il lavoro nel quale intendessero occuparsi.
Nessun riposo o riduzione di orario veniva invece prevista per il periodo immediatamente antecedente il parto.
Niente disponeva la legge in ordine alla retribuzione cui avevano diritto le lavoratrici madri durante il “congedo di maternità”; solo nel 1910 con la legge n. 520 venivano istituite le casse di maternità con la funzione di erogare alle lavoratrici madri durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro una prestazione economica di carattere assistenziale, fissata in cifra predeterminata e non ragguagliata al salario.
L’art. 10 della legge 242/1902 disponeva che nelle fabbriche dove erano impiegate donne, il datore di lavoro avrebbe dovuto permettere l’allattamento “sia in una camera speciale annessa allo stabilimento, sia permettendo alle operaie nutrici l’uscita dalla fabbrica nei modi e nelle ore che stabilirà il regolamento interno”.
I datori di lavoro che impiegassero almeno cinquanta donne avevano l’obbligo di istituire la camera speciale di allattamento.
Il tempo impiegato dalla lavoratrice per allattare i figli era comunque distinto dai riposi intermedi previsti in funzione della durata dell’orario di lavoro.
L’art. 13 sanzionava la violazione di tali disposizioni con un’ammenda da 50 a 500 lire.
La legge sotto questo aspetto è senz’altro innovativa in quanto mostra attenzione nei confronti della necessità per le lavoratrici madri di provvedere direttamente all’allattamento dei figli. Certo l’aver demandata la determinazione della durata e le modalità di godimento dei riposi per allattare al regolamento interno alle aziende lasciava un ampio margine di discrezionalità ai datori di lavoro, ma, di fronte al precedente assoluto vuoto normativo, il passo avanti risulta essere notevole.
Nel 1907 la legge n. 416 estendeva il divieto di lavoro notturno alle donne di qualsiasi età, anche se le eccezioni erano numerose e limitavano la portata innovativa della norma.
Nel 1919 la legge 1176 segnava una tappa decisiva nella emancipazione delle donne prevedendo la loro ammissione a coprire tutti i pubblici impieghi esclusi soltanto quelli che implicassero poteri pubblici giurisdizionali, o l’esercizio di diritti o potestà politiche nonché quelli attinenti alla difesa militare dello Stato.
Torna su
2. Il Regio Decreto legge 22 marzo 1934 n. 654
Nel corso della seconda metà degli anni Venti il problema della tutela della maternità veniva affrontato mediante l’approvazione della legge n. 2277 /1925 e 1168/1927, che nel 1934 confluivano nel Testo Unico delle leggi sulla protezione ed assistenza della maternità ed infanzia. Tali leggi istituivano un ente morale denominato “Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia” avente la funzione di provvedere, per il tramite dei suoi organi provinciali e comunali, all’assistenza delle gestanti e delle madri bisognose o abbandonate e dei minori che versassero in condizioni di abbandono ; all’ONMI era concessa la facoltà di fondare istituzioni di assistenza materna, casse di maternità, opere ausiliarie dei brefotrofi per la tutela delle madri bisognose e abbandonate che allattano la prole ed altre istituzioni a favore della maternità e dell’infanzia.
L’ONMI nello svolgimento di tali compiti era coadiuvata dalle Federazioni provinciali nonché dai Comitati di patronato; in particolare a questi ultimi era demandato il compito di organizzare ed attuare “l’assistenza della maternità con ambulatori specializzati perché le madri che allattano i loro figli e questi siano sorvegliati e curati, nel periodo dell’allattamento e dopo il divezzamento” .
Il regio Decreto Legge 22 marzo 1934 segna una tappa davvero importante nella legislazione a tutela della maternità delle lavoratrici in quanto regolamenta la materia in maniera compiuta nei suoi diversi aspetti.
Dall’ambito di applicazione della legge restano escluse le donne addette ai lavori domestici “inerenti alla vita della famiglia”, la moglie, le parenti ed affini del datore di lavoro, le lavoranti a domicilio le donne occupate negli uffici dello Stato, delle provincie e dei Comuni nonché degli Istituti di beneficenza.
Il divieto di adibire le donne al lavoro, e quindi il periodo c.d. di astensione obbligatoria delle stesse dal lavoro, veniva esteso anche all’ultimo mese precedente la data del parto ; l’astensione obbligatoria post partum veniva fissata in sei settimane. Entrambi i periodi erano riducibili, in via eccezionale, su richiesta della donna fino a tre settimane se il certificato medico attestava che la prosecuzione del lavoro anche oltre detti periodi può avvenire senza pregiudizio per le condizioni di salute della donna .
Oltre al periodo di astensione obbligatoria, era previsto un periodo di astensione facoltativa dal momento che l’art.8 conferisce alla donna il diritto di assentarsi dal lavoro “fin dall’inizio della sesta settimana antecedente la data presunta del parto”.
Il legislatore del ’34 si preoccupava di evitare facili elusioni della normativa a protezione della maternità delle lavoratrici imponendo al datore di lavoro un obbligo di conservazione del posto con riferimento al periodo di assenza obbligata e facoltativa .
In caso di malattia in conseguenza della gravidanza per cui la lavoratrice dovesse astenersi dal lavoro oltre detti periodi, l’obbligo di conservazione del posto è esteso ad un ulteriore mese .
Alla medesima ratio è ispirato l’art. 11 che vieta il licenziamento della donna, che continua dopo la presentazione del certificato di gravidanza a prestare la propria opera, “durante il restante periodo di gestazione in cui può essere addetta ala lavoro, se non in caso di colpa costituente giusta causa di risoluzione del rapporto”.
La legge in commento dispone anche al fine di consentire alle lavoratrici madri di provvedere all’allattamento al seno dei propri figli senza che da ciò derivino conseguenze negative o pregiudizievoli per la loro posizione lavorativa.
Gli articoli 14 – 17 obbligano i datori di lavoro a dare alle madri “che allattano direttamente i propri bambini” due periodi di riposo durante la giornata per provvedere all’allattamento, per un anno dalla nascita del bambino.
La legge, a differenza della precedente, fissa direttamente la durata dei riposi in un’ora ciascuno con il diritto della donna di uscire dall’azienda, qualora il datore di lavoro non abbia messo a disposizione un’apposita camera di allattamento, fra l’altro obbligatoria in caso nell’azienda siano occupate almeno 50 donne di età compresa fra i 15 e i 50 anni.
Torna su
3. L’art. 37 della Costituzione
Nell’excursus storico dell’evoluzione della normativa italiana a protezione delle lavoratrici madri non può essere omesso l’art. 37 della Costituzione con il quale le donne videro finalmente affermata quella eguaglianza nel lavoro che da sempre era stata loro negata .
L’art. 37 comma I infatti dispone che “la lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” ed ancora “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare ed assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione“.
La prima parte del comma 1 rappresenta la trasposizione nel settore del lavoro del più generale principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della medesima Costituzione. Per la determinazione del trattamento economico applicabile alle lavoratrici sarà quindi necessario far riferimento al trattamento economico e normativo del lavoratore uomo che ricopra e stesse mansioni.
Ai fini della nostra esposizione rileva ancor più la seconda parte del I comma che tutela la funzione familiare della donna lavoratrice. Questa norma costituisce infatti il presupposto di tutti gli interventi normativi successivi aventi l’obiettivo di sollevare la donna dal dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria vita familiare e soprattutto gli interessi del nascituro. L’esame di tale normativa costituirà oggetto dei successivi paragrafi.
Torna su
4. Un primo intervento organico a tutela della maternità: la legge 860/1950
4.1.Ambito di applicazione della legge
La legge 26 agosto 1950 n. 860, come si evince dall’epigrafe “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri“, si propone di assicurare alle lavoratrici madri una tutela adeguata onde reprimere l’intento dei datori di lavoro di licenziare o comunque penalizzare la donna lavoratrice che affrontasse l’esperienza della maternità.
Rispetto alla legge 654/34, la legge 860/1950 ha un ambito di applicazione più vasto.
Essa infatti si applica “alle lavoratrici gestanti e puerpere che prestano la loro opera alle di privati datori di lavoro, comprese le lavoratrici dell’agricoltura, (.), nonché a quelle dipendenti dagli uffici o dalle aziende dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti pubblici e Società Cooperativistiche anche se socie di queste ultime” .
Il compito di disporre per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici addette ai servizi familiari e delle lavoratrici a domicilio viene demandato ad una legge successiva .
4.2. Divieto di svolgimento di lavori pesanti durante il periodo di allattamento (art.4)
Se la legge del 1934 vietava di adibire al trasporto e al sollevamento pesi le donne in stato di gravidanza “nei tre mesi precedenti la data presunta del parto”, un notevole progresso si registra nella legge 860.
Tale divieto infatti è sancito dall’art. 4 a decorrere “dalla presentazione del certificato di gravidanza . e per tre mesi dopo il parto, e fino a sette mesi ove provvedano direttamente all’allattamento del bambino“.
In tale periodo è prevista l’assegnazione delle donne ad altre mansioni.
La nuova norma dimostra un maggiore attenzione a questa delicata fase della vita della donna e dimostra una chiara consapevolezza di come lavori eccessivamente logoranti possano pregiudicare la vita della donna e il buon esito della gravidanza.
4.3. Divieto di licenziamento
Fra le norme di maggior rilievo della legge in commento, in quanto assolutamente innovativa, l’art.3 sancisce il divieto di licenziare le lavoratrici durante il periodo di gestazione e durante il periodo, pari ad otto settimane dopo il parto, di astensione obbligatoria dal lavoro.
Il divieto di adibire al lavoro le donne viene altresì sancito per i tre mesi precedenti la data presunta del parto in caso di lavoratrici addette all’industria, per le otto settimane precedenti per le addette ai lavori agricoli e nelle sei settimane precedenti per tutte le altre categorie .
Tali periodi di assenza dal lavoro possono essere estesi dall’Ispettorato del lavoro qualora le condizioni di lavoro o ambientali possano essere pregiudizievoli alla salute della donna o del bambino .
Alla lavoratrice, trascorse le otto settimane successive al parto, viene concessa altresì la facoltà di assentarsi dal lavoro per un periodo di sei mesi “durante il quale le sarà conservato il posto a tutti gli effetti dell’anzianità” , senza però aver diritto all’indennità giornaliera dell’80% della retribuzione previsto a carico dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie o degli altri Istituti, enti o case che provvedono all’assicurazione obbligatoria contro le malattie per il periodo di assenza obbligatoria dal lavoro .
4.4. I periodi di riposo per provvedere all’allattamento (art. 10)
Poche novità si registrano con riferimento ai riposi garantiti alle lavoratrici madri che provvedono direttamente all’allattamento dei figli.
Le norme della legge 860 riproducono, potremmo dire fedelmente, il contenuto delle disposizioni della legge precedente alle quali pertanto si rinvia.
Viene ribadito l’obbligo per i datori di lavoro di istituire le camere di allattamento.
Tale obbligo viene infatti a gravare su quei datori di lavoro che impieghino nella loro azienda “almeno trenta donne coniugate di età non superiore ai 50 anni”. Rispetto all’art. 16 della legge 654/34 si rileva come il numero cui è connesso l’obbligo sia stato ridotto da cinquanta a trenta; è curioso osservare, però, come la legge 860 nel computo tenga conto solo delle donne coniugate, laddove la legge precedente non distingueva in base alla sussistenza del vincolo matrimoniale.
Il datore di lavoro può essere esonerato da tale obbligo dall’Ispettorato del lavoro solo allorquando finanzi o partecipi alla istituzione di asili nido interaziendali in luoghi convenienti per le lavoratrici dipendenti . Le camere di allattamento e gli asili nido devono essere mantenuti in modo da rispondere alle norme igieniche e in stato di “scrupolosa pulizia” .
La violazione di tali norme è sanzionata dalla legge con l’ammenda da lire 5.000 a lire 30.000 .
Torna su
5.La normativa attualmente vigente: legge 1204/1971
La legge 1204 del 1971, così come le precedenti, si propone lo scopo di assicurare un’adeguata tutela alla donna lavoratrice predisponendo una serie di rimedi assistenziali, economici e normativi che consentano alla donna di continuare a svolgere il proprio lavoro senza compromettere la cura dei figli e le connesse attività familiari.
La normativa emanata negli anni Settanta si caratterizza per l’aver dato realizzazione ai valori costituzionalmente garantiti della parità fra uomo e donna, della funzione sociale della maternità e dell’inserimento della donna nel mondo del lavoro.
La legge in commento ripropone e modifica alla luce dei suindicati obiettivi, istituti già introdotti e disciplinati dalla legge 654 del 1934 prima e dalla legge 860 del 1950 poi.
L’art. 3 ribadisce il divieto di adibire le donne al trasporto e al sollevamento dei pesi durante il periodo di gestazione e fino a sette mesi dopo il parto ampliandolo più genericamente ai lavori pericolosi ed insalubri.
Il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro ha inizio 2 mesi prima del parto (tre mesi in caso di lavori pregiudizievoli o gravosi) fino ai tre mesi successivi . Detti periodi ai sensi di quanto disposto dalla legge 903/1977 sono da considerarsi come vera e propria attività lavorativa, anche ai fini della progressione della carriera, salvo diversità di requisiti richiesti dai contratti collettivi.
Le Unità Sanitarie locali , sulla base di accertamento medico, possono peraltro disporre l’interdizione anticipata dal lavoro in caso di gravi complicanze o preesistenti forme morbose che possano essere aggravate dallo stato di gravidanza o qualora le condizioni di lavoro siano pregiudizievoli alla salute della donna o del bambino.
Alla lavoratrice viene conferito il diritto di assentarsi dal lavoro, una volta terminato il periodo di interdizione obbligatoria, per un periodo, entro il primo anno di vita del bambino, di sei mesi durante il quale ha diritto alla conservazione del posto.
Con riferimento alle disposizioni che garantiscano alla donna lavoratrice di provvedere all’allattamento dei figli si registra, da un lato, una sostanziale continuità con la disciplina previgente, dall’altro un cambiamento del dato letterale che, forse oltre ogni aspettativa e immaginazione del legislatore che ha emanato le norme, ha determinato un differente ambito di applicazione delle stesse.
5.1. L’art. 10 della legge 1204/1971: il dato letterale a confronto con la previgente normativa. L’interpretazione della ratio della norma e la sua portata dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’art. 8 L. 903/1977
L’art. 10 dispone che il datore di lavoro debba “consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata“; la donna ha diritto ad un solo riposo quando l’orario di lavoro giornaliero è inferiore a sei ore.
Prima di esaminare le modalità di godimento di tali periodi di riposo conviene soffermarsi appunto sul dato letterale di questa prima parte della norma.
La legge del 1950 concedeva il diritto a due periodi di riposo giornaliero “alle lavoratrici madri ..che allattano direttamente i propri bambini . per provvedere all’allattamento”. Costituendo l’allattamento la “giustificazione” del riposo, ove la madre non vi avesse provveduto direttamente, o per scelta o per necessità, tale riposo non avrebbe potuto essere goduto né da lei, né tanto meno da qualcun altro al suo posto.
La nuova formulazione elimina ogni riferimento all’allattamento, limitandosi a parlare di periodi di riposo fruibili dalle lavoratrici madri.
La giurisprudenza inizialmente sembrava, tuttavia, ferma nel ritenere che la finalità della norma fosse quella di consentire alla madre di provvedere all’allattamento diretto del bambino. Significativa ed esplicita in questo senso è la sentenza della Pretura di Torino dell’8 giugno 1985 che, seppur emessa da un organo giudicante di merito, è espressiva di un orientamento che, a quanto consta alla scrivente, era assolutamente uniforme. Così il giudice di merito: “i riposi giornalieri ex art. 10 della legge n. 1204 del 1971, di cui è esclusiva titolare la lavoratrice madre, hanno specifico collegamento con le condizioni post partum della donna entro l’anno dalla nascita del bambino; .. l’art. 10 si iscrive nell’area delle misure intese ad assicurare alla lavoratrice madre adeguata protezione, ex art. 37 Cost.”.
La conclusione cui perveniva il Pretore di Torino faceva leva sul fatto che l’art. 7 della successiva legge 903 del 1977, tendente ad attuare la parità fra uomo e donna laddove non sussistano presupposti oggettivi per un differente trattamento, ha esteso al lavoratore padre il diritto all’assenza facoltativa per sei mesi durante il primo anno di età del bambino nonché il diritto ad assentarsi dal lavoro per i periodi di malattia del figlio di età inferiore ai tre anni, laddove non garantisce al padre il diritto alla fruizione dei riposi di cui all’art. 10 della 1204/71.
In tale contesto si inserisce la sentenza della Corte Costituzionale del 21 aprile 1993 n. 179 . Essa non ha ad oggetto direttamente la norma in commento, bensì quell’art. 7 della legge 9 dicembre 19977 n. 903 richiamato anche dal Pretore di Torino, che viene giudicato “costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non estende in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore in alternativa alla madre lavoratrice il diritto ai riposi giornalieri previsti dall’art. 10 l. 30 dicembre 1971 n. 1202, per l’assistenza al figlio nel suo primo anno di vita“.
La Corte di Cassazione, rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, rilevava infatti come che “i riposi giornalieri non sono strettamente connessi alle esigenze dell’allattamento naturale ma agli interessi della prole e sono fondati sulla stessa ratio sottesa all’astensione facoltativa post partum” per la quale l’art. 7 l.903/77 prevedeva la fruibilità anche da parte del padre; l’organo rimettente sollevava la questione di legittimità costituzionale di questa norma con riferimento agli artt. 3, 29 secondo comma, 30,31 secondo comma e 37 della Costituzione.
La Corte Costituzionale valutava come fondata la questione, ritenendo che andasse risolta tenendo in debito conto oltre che valori costituzionalmente garantiti quali la tutela della maternità, dell’autonomo interesse del minore, della parità dei diritti e doveri fra i coniugi, della parità fra gli uomini e donne in materia di lavoro, anche la moderna evoluzione della legislazione e della giurisprudenza in tema di rapporti sociali nell’ambito della famiglia.
In particolare ha ritenuto che “la natura e la finalità dei riposi giornalieri previsti dall’art. 10 l.1204/1971 per le lavoratrici madri, nonostante il testuale riferimento al << riposo della madre>> non corrispondano più soltanto all’allattamento del neonato e ad altre sue esigenze biologiche . ma a qualsiasi forma di assistenza del bambino” e che l’art. 7, riconoscendo anche la padre la facoltà di assentarsi per sei mesi dal lavoro durante il primo anno di vita del bambino, abbia, da un lato, sancito il superamento della concezione di una rigida distinzione dei ruoli e dall’altro, evidenziato come un equilibrato sviluppo della personalità del bambino richieda l’assistenza da parte di entrambe le figure genitoriali anche per aspetti di carattere affettivo relazionale.
La Corte concludeva dunque, in coerenza con l’evoluzione della normativa e della giurisprudenza, che spettano anche al lavoratore padre, in alternativa alla lavoratrice e con il suo consenso, il diritto ai periodi di riposo giornaliero alle condizioni previste dall’art. 10 l.30 dicembre 1971 n. 1204 per assistere il figlio nel suo primo anno di vita. Per quanto nel linguaggio comune e nella stessa giurisprudenza si continui a far riferimento a tali riposi definendoli “riposi per allattamento”, l’espressione sembra, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, ridurre la portata effettiva della norma.
La Corte Costituzionale pur riconoscendo “la funzione essenziale della madre nei rapporti con il bambino” ha ritenuto che “anche il padre è idoneo a prestare assistenza materiale e supporto affettivo al minore”.
Il bambino in questa ottica assurge ad autonomo titolare di interessi, interessi che devono essere tutelati non solo per quanto riguarda il lato propriamente fisiologico, ma anche e soprattutto per l’aspetto affettivo relazionale in modo che vengano a realizzarsi le condizioni per un adeguato sviluppo della sua personalità.
5.2. I diritti garantiti e gli oneri gravanti sulla lavoratrice
Come già anticipato, la lavoratrice, secondo quanto disposto dall’art. 10 della legge 1204/1971, ha diritto durante il primo anno di vita del bambino, a due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore. Durante tali periodi la donna ha diritto ad uscire dall’azienda.
Ogni riposo ha la durata di un’ora salvo il caso in cui la lavoratrice voglia usufruire della camera di allattamento o dell’asilo nido, eventualmente istituito dal datore di lavoro nelle dipendenze dei locali di lavoro.
Le precedenti normative in materia obbligavano infatti i datori di lavoro che impiegassero almeno cinquanta donne nella propria azienda ad istituire nelle dipendenze dei locali di lavoro una camera di allattamento o un asilo nido.
Tale obbligo viene soppresso dalla legge 1204.
L’art. 34 disponeva che continuassero peraltro ad applicarsi in via transitoria gli artt. 11,12 e 13 della legge 860/50 a quei datori di lavoro che avessero provveduto alla istituzione di tali strutture. Tale norma sottoposta all’esame della Corte Costituzionale è stata ritenuta, con sentenza n. 92 del 30 maggio 1977, illegittima in quanto veniva a gravare questi datori di lavoro di un doppio onere (da un lato le spese per la conduzione degli asili nido, dall’altro la maggiorazione dello 0,10 % sui contributi ) che invece non sopportavano quelle aziende che non avevano ottemperato all’obbligo della loro istituzione, che erano state autorizzate a chiuderli o che alla data del 15 dicembre 1971 non li avevano comunque in funzione. Il contributo a carico del datori di lavoro è stato peraltro soppresso dall’art. 3 legge 23 dicembre 1998 n. 448
L’art. 10 del Regolamento di attuazione della legge 1204 (D.P.R. 25 novembre 1976 n. 1026) dispone che, “fermo restando che i riposi di cui all’art. 10 della legge devono assicurare alla lavoratrice la possibilità di provvedere all’assistenza del bambino”, la distribuzione dei riposi nell’arco della giornata lavorativa deve essere concordata fra la lavoratrice ed il datore di lavoro, “tenendo anche conto delle esigenze del servizio”.
Il regolamento fissa quindi i criteri che debbono guidare le parti nella fissazione degli orari di godimento dei riposi di cui all’art. 10 della legge 1204. L’incipit della norma evidenzia il carattere prevalente che viene attribuito alle esigenze della donna e del bambino che in nessun caso potranno essere compromessi, nemmeno da esigenze della produzione. Queste ultime andranno tenute presenti nella determinazione degli orari di fruizione dei riposi.
Laddove non sia possibile addivenire ad un accordo che contemperi le opposte necessità, la determinazione di tali orari viene demandata all’Ispettorato del lavoro. Essendo stati tali ispettorati soppressi dagli artt. 5 e 6 della legge 24 dicembre 1993 n. 537, le funzioni ad essi attribuite sono attualmente esercitate, per effetto del D.M. 7 novembre 1996 n. 687, dalle Direzioni Provinciali del lavoro.
L’ultimo comma dell’art. 10 del regolamento prevede che non sia consentito alcun trattamento economico sostitutivo. La norma è importante in quanto preclude al datore di lavoro di prevedere incentivi economici tali da determinare la lavoratrice a rinunciare all’allattamento e all’assistenza diretta del bambino.
Se dunque il datore di lavoro ha l’obbligo di concedere i riposi, la lavoratrice ha l’onere di farne richiesta al datore di lavoro. In caso di mancata richiesta, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto che alla lavoratrice non spetti alcun risarcimento (Cass. 24 ottobre 1986 n. 6236).
Qualora, invece, la lavoratrice abbia inoltrato regolare richiesta al proprio datore di lavoro e questi illegittimamente le abbia precluso la possibilità di godere dei riposi giornalieri sussiste in capo alla lavoratrice il diritto al risarcimento del danno. Il criterio di liquidazione del danno che la lavoratrice venga a subire in conseguenza di un divieto illegittimo è stato dalla giurisprudenza di merito individuato nel compenso orario normale goduto dalla lavoratrice in quanto esso rappresenta “la misura minima, e unica e certa, del danno sofferto” in analogia con quanto accade per il calcolo delle c.d. indennità sostitutive .
5.3. L’adesione allo sciopero e la determinazione dei riposi usufruibili
Il parametro di riferimento per determinare il numero di riposi cui ha diritto la lavoratrice è l’orario di lavoro giornaliero normale; i riposi, come detto, devono essere fruiti nei periodi determinati d’accordo fra la lavoratrice ed il datore di lavoro senza spostamenti o soppressioni in relazione a particolari evenienze che modifichino o riducano la durata dell’orario normale in quanto queste ultime potrebbero compromettere l’equilibrio alimentare del bambino.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il diritto a tali riposi e alla correlativa indennità non sia escluso né limitato quantitativamente dal fatto che la lavoratrice abbia partecipato ad uno sciopero effettuato in ore diverse da quelle stabilite per i riposi stessi.
La lavoratrice che, a seguito dell’adesione ad uno sciopero, presti lavoro effettivo per meno di sei ore giornaliere ha comunque diritto ad usufruire di entrambi i periodi di riposo qualora l’orario concordato per il loro godimento non coincida con il periodo di adesione allo sciopero.
5.4. La conciliabilità del trattamento CIG con il godimento dei periodi di riposo
Nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro sia conseguente alla messa in Cassa integrazione della lavoratrice: la lavoratrice ha diritto ai riposi solo se questi, così come concordati, coincidono con ore lavorative. In questo caso la lavoratrice ha diritto alla relativa prestazione previdenziale, più favorevole del trattamento di integrazione salariale, senza però possibilità di cumularla con quest’ultima.
Diverso è l’ipotesi di Cassa integrazione c.d. “a zero ore”: in questo caso la giurisprudenza ha ritenuto non ammissibile il godimento di tali riposi. Essi infatti comporterebbero la sospensione dell’obbligo di prestare l’attività lavorativa, laddove la stessa è già integralmente sospesa per altre ragioni. Alla lavoratrice spetta dunque solo il trattamento di integrazione salariale riferito però all’intero orario contrattuale .
5.5. La durata dei riposi in caso di parto gemellare
È interessante richiamare una sempre più cospicua giurisprudenza di merito che ritiene che in caso di parto gemellare la lavoratrice abbia il diritto di usufruire di un numero doppio di ore dei riposi giornalieri nel primo anno di vita dei bambini, a nulla rilevando che, in caso di più figli, i periodi di riposo possano in concreto assorbire completamente la prestazione lavorativa.
Gli organi giudicanti hanno ritenuto che per stabilire il numero di periodi di riposo di cui la lavoratrice madre (o il lavoratore padre) hanno diritto di usufruire è necessario individuare un criterio certo ed obiettivo e l’unico criterio indicato dal legislatore è quello legato alle esigenze di vita del bambino: la lavoratrice ha diritto di usufruire di un numero di permessi pari al numero dei bambini.
La circostanza contingente che i permessi possano di fatto assorbire totalmente l’orario di lavoro, annullando quindi completamente l’attività lavorativa, non può indurre a sostituire l’interpretazione prescelta del dato normativo posto che “deve essere pur sempre la norma a regolare il fatto e non il fatto ad indurre modificazioni (giuridicamente infondate) della norma” .
Poiché infatti il criterio interpretativo letterale non consente di addivenire a risultati univoci, la giurisprudenza ha fatto ricorso al criterio teleologico. I riposi non sono più finalizzati soltanto all’allattamento del bambino o ad altre sue esigenze fisiologiche, ma a garantire al bambino qualsiasi forma di assistenza in quanto è nel suo primo anno di vita che il bambino esige maggiormente il rapporto fisico e psicologico con la madre o con il padre. E se la legge intende favorire questo rapporto affettivo garantendo un’astensione dal lavoro, il tempo utilizzabile per tale rapporto deve essere uguale per ogni figlio in quanto questi sono i veri destinatari della tutela legislativa .
5.6. L’illegittimità della sospensione dalle mansioni superiori per la donna che si avvale dei riposi
Il secondo comma dell’art. 10 della lege 1204/1971 statuisce che i riposi debbano considerarsi ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. La disposizione ha trovato piena applicazione giurisprudenziale.
In particolare è stata giudicata illegittimo la sospensione dalle mansioni superiori disposta nei confronti della lavoratrice madre in orario ridotto per la fruizione dei periodi di riposo per allattamento.
La sentenza del TAR Lombardia dell’11 febbraio 1992 è così argomentata. L’art. 8 del Decreto Ministeriale 28 aprile 1983 n. 178 prevede che la revoca del conferimento delle mansioni superiori possa essere disposta solo nel caso in cui il dipendente riporti una sanzione disciplinare superiore alla censura, laddove il mantenimento dell’incarico possa pregiudicare il prestigio dell’Amministrazione o il regolare andamento dei servizio per insufficiente capacità o l’incaricato sia riconosciuto inidoneo.
Tale quadro normativo pertanto “non consente di individuare nella riduzione per legge dell’orario lavorativo giornaliero una causa legittima di revoca dalle mansioni superiori” in quanto i riposi per allattamento sono dalla legge considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro e dunque non sono riconducibili a nessuna delle ipotesi elencate dalla norma citata.
Il TAR Lombardia concludeva quindi per l’accoglimento del ricorso presentato dalla lavoratrice sospesa dalle mansioni superiori anche tenendo conto conti di quella giurisprudenza nazionale e comunitaria secondo la quale “i diritti riconosciuti alle lavoratrici e ricollegabili alla loro maternità non possono essere utilizzati in loro danno attraverso discriminazioni nell’attribuzione delle qualifiche e delle mansioni, nonché nella progressione di carriera“.
5.7. Il premio di rendimento e la computabilità ai fini della sua determinazione dei periodi di riposo
La Corte di Cassazione con sentenza 10 settembre 1988 n. 5151 decideva per il rigetto di un ricorso presentato avverso la sentenza del Tribunale di Gorizia che aveva dichiarato illegittima la decurtazione del premio di rendimento, applicata nei confronti di una lavoratrice che si avvaleva dei riposi per allattamento, sulla base della disposizione del contratto aziendale della medesima Cassa di Risparmio che dimezzava il premio di produzione in caso “assenza” superiore a sei mesi (nel caso di specie la Cassa di risparmio aveva infatti sommato alle altre assenze anche i riposi fruiti dalla lavoratrice ai sensi dell’art. 10 l. 1204/71).
Il riposo fruito dalla lavoratrice per provvedere alla assistenza e all’allattamento del figlio non può essere considerato assenza non solo per la “diversità ontologico funzionale” dei due termini, ma anche per la diversa disciplina legislativa.
Dall’equiparazione operata dal secondo comma dell’art. 10 legge 1204 /71, discende infatti che la durata del lavoro non viene minimamente incisa dai permessi per maternità e che la giornata lavorativa deve essere considerata in ogni caso completa. La decurtazione del premio di rendimento sulla base della norma interna aziendale era pertanto da ritenersi illegittima.
La statuizione della Corte fissa un principio di notevole importanza in quanto la scelta della lavoratrice di avvalersi o meno dei riposi giornalieri deve essere assolutamente libera e non condizionata dalla prospettiva di un eventuale perdita di vantaggi economici che l’azienda concede ai dipendenti.
Sempre ispirata al fine di non penalizzare la lavoratrice che si avvalga dei riposi giornalieri sembra la sentenza del TAR Toscana del 3 luglio 1993 n. 529 secondo la quale alla lavoratrice non possono essere precluse prestazioni aggiuntive di servizio e di “plus” orario con conseguente diritto ai relativi compensi.
5.8. Il trattamento economico
Per quanto riguarda il trattamento economico relativo alle ore in cui la lavoratrice si avvale dei riposi giornalieri, l’art. 10 della legge 1204 si limita a dire che tali ore dono da considerarsi lavorative ai fini della retribuzione.
In proposito è più specifico l’art. 8 della legge n. 903 del 1977 il quale dispone che per tali riposi è dovuta da parte dell’ente assicuratore di malattia presso il quale la lavoratrice è assicurata un’indennità pari all’intero ammontare della retribuzione relativa ai riposi medesimi.
Tale indennità deve essere anticipata dal datore di lavoro e portata dallo steso a conguaglio con gli importi contributivi dovuti all’ente assicuratore.
Lo Stato predispone gli apporti necessari per far fronte al suddetto onere.
Secondo la Corte di Cassazione i periodi di riposo fruibili dalla madre, e ora anche dal padre, per l’assistenza del bambino non attribuiscono il diritto ad una contribuzione figurativa a fini previdenziali in quanto non risultano essere assimilabili agli eventi indicati dall’art. 56 primo comma, lett. a) del R.D.L. 4 ottobre 1935 n, 1827. Questa norma infatti richiama eventi quali il servizio militare, malattie ed infortunio, la donazione del sangue, interruzione obbligatoria e facoltativa per gravidanza e puerperio, integrazioni salariali, contratti di solidarietà, disoccupazione e mobilità indennizzate, assistenza antitubercolare, aspettativa per funzioni elettive e cariche sindacali che implicano tutti una mancanza totale di prestazione lavorativa, con una conseguente incidenza negativa sul piano retributivo e previdenziale.
Nel caso dei riposi la lavoratrice è in grado di assolvere la propria obbligazione lavorativa e si astiene dalla medesima per un esiguo periodo di tempo: non ricorre uno stato di bisogno rapportabile a quello esistente nei casi indicati dal R.D.L. 1827/35 dal momento che i lavoratori che usufruiscono dei riposi giornalieri continuano a prestare la loro opera sia pure per un orario ridotto e a ricevere quasi per intero la retribuzione e i contributi .
Sempre in materia di contribuzione la giurisprudenza di merito ha valutato illegittimo l’operato del datore di lavoro che abbia calcolato l’imponibile contributivo decurtandolo dell’indennità relativa ai permessi di allattamento e determinandolo in misura inferiore ai minimali contributivi .
5.9. Sanzioni per l’inosservanza delle disposizioni
Le sanzioni che la legge 1204 /71 prevede per la violazione del disposto dell’art. 10 non paiono certo di per sé sufficienti a scoraggiare i datori di lavoro che volessero opporsi al godimento dei riposi giornalieri per allattamento.
Il datore di lavoro che violi il disposto dell’art. 10 è punito con la sanzione amministrativa da lire un milione a lire cinque milioni.
5.10. La tutela delle lavoratrici autonome
La legge 29 dicembre 1987 n. 546 reca norme in tema di indennità di maternità per le lavoratrici autonome. L’art. 21 della legge prevede la corresponsione alle lavoratrci autonome, coltivatrici dirette, mezzadre e colone, artigiane ed esercenti attività commerciali di una indennità giornaliera per i periodi di gravidanza e puerperio.
La misura di tale indennità, da corrispondersi per i mesi antecedenti la data del parto e per i tre mesi successivi, è prevista nell’80% dela retribuzione minima giornaliera per le coltivatrici dirette, colone e mezzadre.
Alle lavoratrici autonome, artigiane ed esercenti attività commerciale la indennità è corrisposta per i due mesi antecedenti la data presunta del parto e per i tre mesi successivi, anch’essa determinata in misura pari all’80% del salario minimo giornaliero.
Tale indennità verrà corrisposta dall’INPS a seguito di apposita domanda in carta libera, corredata da un certificato medico che attesti la data presunta della gravidanza e la data presunta del parto.
Torna su
6. L’attuazione di alcune direttive CE in materia di tutela delle lavoratrici madri che allattano
Con la legge 10 aprile 1981 n. 157 l’Italia ha ratificato la convenzione n. 136 dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro che vieta di adibire le donne in stato di gravidanza, accertato da un medico, e le madri nel periodo dell’allattamento a lavori che comportino l’esposizione al benzene od a prodotti contenenti benzene.
L’art.118A del Trattato CE (attuale art. 138 secondo la numerazione in vigore dal Trattato di Amsterdam) dispone che gli Stati membri si adoperino per promuovere il miglioramento dell’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori. La medesima norma prevede che per contribuire alla realizzazione di tale obiettivo il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e previa consultazione con il Comitato Economico e Sociale, adotti mediante direttive “le prescrizioni minime, applicabili progressivamente“, ferma restando la possibilità per ciascuno Stato membro di mantenere in vigore o di adottare normative che garantiscano una maggior tutela ai lavoratori.
Il Consiglio, in ottemperanza a tale disposizione, il 19 ottobre 1992 emanava la Direttiva 92/85/CEE concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento .
Il Consiglio, in coerenza con il disposto dell’art. 15 della precedente direttiva 89/391/CEE secondo il quale i gruppi a rischio particolarmente sensibili devono essere protetti contro i pericoli che più direttamente li riguardano, ha considerato le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento “un gruppo esposto a rischi specifici”, per il quale si rendeva necessaria l’adozione di provvedimenti a protezione della loro sicurezza e salute.
L’oggetto della direttiva, individuato dall’art.1, è pertanto rappresentato dall’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.
Al fine di valutare i rischi per le lavoratrici che si trovino in tali condizioni e per poter individuare le misure da adottare, i datori di lavoro dovranno valutare la natura, il grado e la durata di quelle attività che possano presentare un particolare rischio nell’esposizione ad agenti, processi o condizioni di lavoro che possano compromettere la salute della donna o del feto e delle quali la stessa direttiva, negli allegati 1 e 2 , fornisce un elenco piuttosto dettagliato seppur non esaustivo. Dei risultati della valutazione dovranno essere informate le lavoratrici direttamente e/o le loro rappresentanze .
Qualora dalle valutazioni effettuate emergano un rischio per la sicurezza o la salute della donna lavoratrice nonché ripercussioni sulla gravidanza o l’allattamento, il datore di lavoro deve adottare le misure necessarie per evitare l’esposizione della donna a tale rischio “modificando temporaneamente le sue condizioni di lavoro e/o il suo orario di lavoro”. Laddove questi provvedimenti non siano oggettivamente o tecnicamente possibili, la lavoratrice deve essere temporaneamente assegnata a d altre mansioni; ove anche questa soluzione oggettivamente non risulti percorribile, la donna dovrà essere dispensata dal lavoro durante tutto il periodo necessario per la protezione della sua sicurezza o della sua salute .
Le lavoratrici gestanti ed in periodo di allattamento non saranno in alcun caso obbligate a svolgere attività per cui la valutazione abbia rivelato il rischio di esposizione pregiudizievole .
Il legislatore comunitario prevede altresì che la normativa nazionale disponga affinché le lavoratrici durante tale delicata fase della vita non siano obbligate a svolgere un lavoro notturno, dovendo le stesse essere adibite ad un lavoro diurno e, laddove ciò non sia possibile, possano usufruire di una dispensa dal lavoro o di una proroga del congedo di maternità .
Con riferimento a quest’ultimo, la direttiva fissa il limite minimo in “almeno quattordici settimane ininterrotte, ripartite prima e dopo il parto” in conformità a quanto previsto dalle legislazioni nazionali .
Considerando che il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato potesse avere effetti dannosi sullo stato psicofisico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, l’art. 10 prevede un divieto di licenziamento nel periodo compreso fra l’inizio della gravidanza e il termine di congedo di maternità (tranne in casi eccezionali non connessi a tale stato); il datore di lavoro qualora proceda al licenziamento deve fornire per iscritto giustificati motivi.
Per consentire alle lavoratrici di godere dei diritti indicati dalla direttiva, deve essere garantito il godimento dei diritti connessi con il contratto di lavoro, compreso il mantenimento di una retribuzione o il versamento di un’adeguata indennità ; indennità che durante il congedo di maternità deve assicurare redditi almeno equivalenti a quelli che la lavoratrice otterrebbe in caso di interruzione della attività per motivi connessi allo stato di salute, entro il limite di un massimale eventualmente stabilito dalle legislazioni nazionali .
La legge 1204/71 conteneva disposizioni già in linea con la normativa comunitaria del 1992. Nel 1996, comunque, l’Italia con il D. Lgs. 25 novembre 1996 n. 645 ha recepito la direttiva.
L’art. 3 del decreto legislativo prevede che il divieto di adibire la donna lavoratrice gestante, puerpera o in periodo di allattamento a lavori faticosi o insalubri includa anche tutte quelle attività che comportino il rischio di esposizione ad agenti e processi indicati nell’allegato II . Prevede l’obbligo a carico del datore di lavoro di valutare i rischi connessi alle attività che la lavoratrice svolge e di informare le lavoratrici e i loro rappresentanti sui risultati delle valutazioni effettuate. Se tale valutazione dimostri l’esistenza di un rischio per la sicurezza e la salute della lavoratrice, il datore di lavoro dovrà modificare temporaneamente le condizioni e l’orario di lavoro.
Con Decreto Legislativo 17 marzo 1995 n. 230 lo Stato Italiano ha dato attuazione alle direttive EURATOM in materia di radiazioni ionizzanti. È da tale normativa vietato adibire le donne che allattano ad attività comportanti un rischio di contaminazione. La violazione della norma testé citata comporta l’arresto da tre a sei mesi o l’ammenda da tre ad otto milioni.
Torna su
7. Alcuni esempi di tutela delle lavoratrici madri che allattano nella contrattazione collettiva
Anche la contrattazione collettiva cerca di prevedere misure che garantiscano ala lavoratrice madre di provvedere all’allattamento diretto del figlio. Cerchiamo di vedere qualche esempio.
Il contratti collettivi Nazionali di lavoro del personale medico e non con qualifica dirigenziale dispongono, fra l’altro, che “per tutta la durata del periodo di allattamento se naturale, qualora sia accertata una situazione di danno o pericolo per la salute della lavoratrice, fatte salve le disposizioni di legge in materia, si provvede al provvisorio mutamento di attività delle dirigenti interessate che comporti minor aggravio psicofisico”.
Il C.C.N.L. che regola i rapporti di lavoro tra tutte le aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi appartenenti ai settori dell’alimentazione , dei fiori, piante e affini , delle merci d’uso e prodotti industriali , degli ausiliari del commercio, di servizi alle imprese e servizi alle persone nel titolo quindicesimo disciplina l’astensione dal lavoro nel periodo di gravidanza e puerperio, i permessi per provvedere alla assistenza del bambino.
Durante il periodo di gravidanza e puerperio la lavoratrice ha diritto di astenersi dal lavoro per i due mesi precedenti la data presunta del parto, per i tre mesi successivi nonché per un ulteriore periodo (facoltativo) di sei mesi . La lavoratrice ha diritto alla conservazione del posto per tutto il periodo di gestazione e fino al compimento di un anno di età del bambino ; la lavoratrice licenziata in violazione a tale divieto ha diritto ad essere reintegrata nel posto di lavoro dopo la presentazione entro 90 giorni dal licenziamento di un certificato che attesti l’esistenza all’epoca del licenziamento delle condizioni che lo vietavano. Durante il periodo di assenza obbligatoria la lavoratrice ha diritto ad una indennità corrisposta dall’INPS, ma anticipata da datore di lavoro ( che poi la porterà a conguaglio con i contributi dovuti), nella misura dell’80% della retribuzione; durante il periodo di assenza facoltativa tale indennità si riduce al 30% della retribuzione.
Il C.C.N.L. per quanto riguarda i riposi giornalieri per provvedere all’assistenza del bambino richiama sostanzialmente la disciplina dell’art. 10 della legge 1204/1971 per quanto riguarda la durata e il numero dei riposi cui la lavoratrice ha diritto. Per detti riposi è dovuta dall’INPS un’indennità pari all’intero ammontare della retribuzione. Il Contratto collettivo in commento in applicazione della citata sentenza n. 179/93 della Corte Costituzionale prevede esplicitamente che il diritto a tali riposi è alternativamente riconosciuto al padre lavoratore subordinatamente però all’esplicito consenso scritto da parte della madre. Il diritto ai riposi non può essere esercitato durante i periodi in cui un genitore goda già dei periodi di astensione obbligatoria o di assenza facoltativa o quando, per altre cause, l’obbligo della prestazione lavorativa sia interamente sospeso.
Il contratto collettivo del personale del comparto “Ministeri” esclude dall’effettuazione dei turni notturni le donne nel periodo di allattamento fino ad un anno di vita del bambino.
Il Contratto Collettivo Nazionale che regola i rapporti tra le aziende alberghiere, i complessi turistico ricettivi dell’aria aperta, le aziende pubblici esercizi, gli stabilimenti balneari, le imprese di viaggi e turismo, i porti ed approdi turistici e il personale dipendente riproduce le norme della legge 1204/1971 per quanto riguarda i periodi di astensione obbligatoria e facoltativa, il divieto di licenziamento con obbligo, in caso di illegittimo licenziamento, di ripristino del rapporto di lavoro in caso. La misura dell’indennità dovuta per il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro è anche qui fissata nell’80% della retribuzione, nel 30% per il periodo di astensione facoltativa.
Anche con riferimento ai riposi giornalieri la disciplina è quella della legge nazionale con la precisazione che l’indennità cui la lavoratrice ha diritto è corrisposta dall’INPS ma anticipata dal datore di lavoro nella misura pari alla retribuzione dei riposi medesimi.
Torna su